La scienza delle catastrofi

di Riccardo Federle
– Editoriale

foto_editoriale_21

In ascolto della natura sul lungomare di Zara: come sarebbe bello se si potesse sentirne la voce attraverso una conchiglia (crediti: Riccardo Federle)

Era l’isola più bella del mondo. Prima addirittura delle Maldive, arrivate in classifica al secondo posto. Prima di Bali, solo al terzo … e di Milos, delle Fiji e delle Galapagos. Ma la bellezza è aleatoria, inconsistente, fragile. E così Ischia, superba regina di fascino e di cultura è diventata, negli ultimi giorni, teatro di una delle pagine più nere del nostro paese: una vera catastrofe naturale.

Alle cinque di mattino del 26 novembre, infatti, una frana proveniente dal Monte Epomeo ha travolto con fango e detriti il paese di Casamicciola generando un tetro strascico di conseguenze: ingenti danni materiali ma, soprattutto, grandi perdite di vite umane.

Quale punizione divina si nasconde, quindi, sotto una natura ribelle e maligna che non smette di scuotere le proprie membra e partorire cataclismi sull’umanità?

In un tempo passato la domanda sarebbe stata proprio questa. E pure la risposta non avrebbe preso troppa distanza dalla teologia. La punizione celeste è sempre sembrata d’altro canto la più immediata giustificazione alle terribili insidie della storia e grandi filosofi del calibro di Thomas Hobbes e Gianbattista Vico, anche se in un contesto molto diverso, hanno continuamente sostenuto l’idea della paura (e della paura della natura in modo particolare) come l’emozione tutta umana in grado di produrre il sentimento religioso negli uomini. Una passione non solo bloccante, perciò, ma anche produttiva di razionalità.

Inutile negarlo, la paura (per citare uno scritto interessante della professoressa Maria Laura Lanzillo dell’Università degli Studi di Bologna) “ci occupa e ci preoccupa” e l’emergenza climatica, non ci stancheremo di ripeterlo, è ormai una realtà drammatica con terribili conseguenze: l’aumento del livello dei mari, in primis, inevitabile effetto avverso dello scioglimento dei ghiacciai; la riduzione delle riserve di acqua potabile; il surriscaldamento globale; le eruzioni vulcaniche sempre più frequenti ed improvvise (ricordo ad aprile di quest’anno l’imponente sfogo del vulcano Cumbre Vieja che ha distrutto parte dell’isola canaria di La Palma).

Ma la scienza sta cercando di fare oggi ciò che un tempo sembrava solo fantasia: controllare e addirittura prevedere le catastrofi naturali. Sarà veramente possibile?

Difficile dare una risposta. Più semplice, invece, individuare il punto di partenza che, secondo il metodo scientifico, rimane l’osservazione. In questo campo il più insigne maestro è stato senza dubbio Plinio il Vecchio e particolarmente noto, tra tutti, è il suo grande interesse per la celeberrima eruzione del Vesuvio.

La storia di quest’ultimo evento è descritta con minuzia e precisione dal nipote Plinio il Giovane che  tramite epistola a Tacito (Epistulae 6,16, 5-7) gli racconta quanto segue:

“Egli era a Miseno e comandava la flotta in persona. […] Una nube si formava il cui aspetto e la cui forma nessun albero avrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, protesasi verso l’alto come un altissimo tronco, si allargava poi a guisa di rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una corrente d’aria e poi abbandonata a sé stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente. A tratti bianca, a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della cenere che trasportava.

Da persona erudita qual era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato meglio e più da vicino.”

Plinio il Vecchio fa quindi preparare la barca per mettersi in viaggio verso il vulcano e nel frattempo riceve un messaggio dagli amici Rettina e Casco che, dall’altra parte del golfo di Napoli, manifestano forte preoccupazione per gli eventi. La sua missione diviene quindi una effettiva operazione di soccorso e rassicurazione ma senza rinunciare ai numerosi appunti che non smette di annotare sul suo fedele taccuino. I fumi, la cenere e i lapilli diventano tuttavia causa della morte del naturalista che già sembrava soffrire di problematiche respiratorie.

Quando ritornò il giorno” ci fa sapere Plinio il giovane (Epistulae 6,16,20) “il suo corpo fu trovato intatto e illeso, coperto dei panni che aveva indosso: l’aspetto più simile a un uomo che dorme, che a un morto”.

foto_editoriale_ischia

Un’immagine del golfo di Napoli sovrastata da un Vesuvio annuvolato; un po’ di sole e di aria di mare davanti a Castel dell’Ovo; uno scorcio di Procida, sorella minore di Ischia. (crediti: Riccardo Federle).

Lo studio della natura finalizzato ad “addomesticare” la paura (e cito ancora la prof.ssa Lanzillo) è quindi uno dei motori per lo sviluppo delle scienze (in modo particolare politiche e sociali) e trova la sua massima emancipazione grazie al positivismo ottocentesco. D’altra parte già il termine catastrofe racchiude in sé, dal punto di vista etimologico, non solo l’idea di distruzione e sciagura ma anche quella di capovolgimento e nuovo inizio. Nella tragedia antica, infatti, con “catastrofe” si indicava proprio l’ultima delle quattro parti in cui la trama era suddivisa: un epilogo, insomma, nel quale giungevano a compimento le vicissitudini del protagonista e si districava la complicata matassa di eventi che fino a quel momento aveva mantenuto in sospeso la storia.

Tutto questo ci dona uno spiraglio di ottimismo ma non riduce il compito importante della scienza nel comprendere e comunicare il rischio. Va detto che i rischi sono, in partenza, sempre virtuali: diventano reali, infatti, solo quando vengono “anticipati” (se ci pensiamo noi anticipiamo un rischio tutte le volte che diciamo un banale “attento a non cadere”, frase che per forza di cose precede l’atto fisico e solo eventuale della caduta) perché la paura di qualcosa che potrà accadere abita la nostra mente già nel tempo presente.

In linea con questa volontà predittiva, negli anni cinquanta e sessanta, il matematico e filosofo francese Renè Thom elabora la teoria delle catastrofi con l’obiettivo di modellare i mutamenti discontinui che si presentano con una certa frequenza nei fenomeni naturali, in particolare nel campo della biologia.

Dovremmo quindi dedurre che è tutto risolto? La scienza oggi è diventata una fedele ed efficace alleata nella previsione? Non proprio. Taluni aspetti resteranno sempre imprevedibili e il nostro sguardo di studiosi continuerà a posarsi sulla verità senza mai scorgerla pienamente. A questo va aggiunta poi la componente imponderabile dell’emozione che, radicata nella natura dell’uomo, fugge dalla razionalità e mette in atto i comportamenti più impensati.

Quando anche sulla bella Ischia si spegneranno i riflettori, perciò, e verrà messa la parola fine a quel processo di inquisizione che, come ogni volta, mira maggiormente agli ascolti che all’autenticità, forse (se non verrà lasciata cadere nel dimenticatoio l’ennesima situazione non più notiziabile) potremmo decidere di dare il giusto spazio e le giuste risorse alla scienza, nella speranza di continuare quel processo di crescita che non per forza è dato da nuove soluzioni … ma magari da nuovi problemi, dall’invito pressante di domande prima ignorate, dalla screpolatura di concezioni che sembravano ormai assodate.

La nostra artista mi immagina questa volta mentre con la toga, alla stregua di Plinio, guardo affascinato l’eruzione del Vesuvio e ne traggo delle conclusioni scientifiche.