Editoriale – Noi siamo qui

di Riccardo Federle
– Editoriale

Una foto un po’ artistica dove si nota un dettaglio solo se si capisce il contesto. Questo scatto, infatti, è stato fatto a mezzanotte… eppure la luce è ancora molta! Basta quindi spostarsi di pochi chilometri per vivere esperienze in luoghi che ci fanno capire la nostra piccolezza… In questo caso si tratta di una tipica serata estiva con protagonista il mare di Norvegia e il suo sole di mezzanotte (crediti: Riccardo Federle)

“Noi siamo qui!”: in che senso? Questa, solitamente, è la frase che accompagna una foto abbastanza nota della nostra galassia: la via lattea. Non so se vi è mai capitato di trovarla, all’interno della infinita rete di internet. Una piccola freccia va ad indicare un punto irrisorio e alquanto difficile da collocare che dovrebbe corrispondere alla dislocazione astronomica del globo terrestre.

Ogni volta che la vedo mi è davvero impossibile non incappare in una riflessione: noi, infatti, siamo veramente lì, all’interno di quel posticino minuscolo … e rappresentiamo un altrettanto insignificante puntino che vive in un’area geografica ristretta, dispersa tra 149 milioni di chilometri quadrati di terre emerse, i quali già rappresentano solo il 29% della superficie del nostro pianeta che, per il restante 71% è ricoperto dalle acque di oceani e mari.

Eppure, nonostante ogni essere vivente costituisca meno di un granello di sabbia rispetto all’intero Universo, ciascuno ha la presunzione di vivere storie uniche e problemi irrisolvibili. Non solo: ognuno ha l’arroganza di imporre decisioni, di modificare il corso degli eventi o di influenzare in modo cospicuo la vita degli altri.

Tutto questo rappresenta forse l’aspetto più incredibile della storia dell’umanità e la differenza sostanziale con qualsiasi altra forma di vita che abbia mai calpestato il nostro pianeta, caratteristica che, a quanto pare, rappresenta la nostra più grande risorsa e anche la più profonda rovina. I dati ci raccontano, ad esempio, che ogni specie vivente abita il mondo in media per 4-5 milioni di anni prima di incombere in una fisiologica estinzione: i cambiamenti e le influenze generate dall’uomo in soli 200 mila anni (l’Homo Sapiens è presente in effetti da “pochissimo” tempo) sono stati però così grandi da far dubitare fortemente gli scienziati di una sopravvivenza così lunga nel tempo.

Una foto della nostra galassia, la Via Lattea, con la freccia che indica la probabile dislocazione del globo terrestre (foto di libero uso)

Saremo dunque destinati ad una estinzione precoce? Probabilmente sì se questo rimarrà il nostro atteggiamento, se cioè il genere umano si ostinerà a comportarsi con supremazia su ogni altra cosa.

Ciò che rende unica l’esperienza della vita dell’umanità è proprio questo: il tentativo di trasformare ogni realtà oggettiva in una decisione democratica, più spesso oligarchica o talvolta pure monarchica… ma sempre e comunque una decisione. Come se tutto potesse essere scelto e deciso e fosse solo ed unicamente una questione di volontà.

In realtà però, come ci ha ricordato più volte Piero Angela, la scienza non è democratica e ha bisogno di essere capita e non scelta: la velocità della luce, infatti, non si decide per alzata di mano.

Tuttavia una innata tracotanza trasforma anche la scienza in qualcosa che deve essere piegata alla determinazione di chi la vive. E questo anche contro le stesse evidenze…

Oggi vorrei allora raccontarvi proprio questa curiosità: un caso storico di una scelta fatta per una ragione sociale, economica e spirituale ma con un risultato finale completamente anomalo e a-scientifico: e i protagonisti sono i Capibara, una popolazione di roditori originari del Sud America.

Leggendo su qualsiasi enciclopedia ci viene detto che il capibara o idrochèro (Hydrochoerus hydrochaeris Linnaeus, 1766) è un grosso roditore caviide originario del Sud America. Cugino stretto dei porcellini d’india e delle cavie delle rocce abita savane e foreste vivendo principalmente vicino agli specchi d’acqua. L’evoluzione ha portato nel tempo questo animale a sviluppare notevoli capacità nel nuoto, piedi semi-palmati e la possibilità di trattenere il respiro anche fino a 5 minuti.

“Cosa ci sarà mai di strano?” mi chiederete. Ebbene la stranezza deriva da altro. Questo che è infatti il più grande roditore vivente al mondo è stato per anni classificato come pesce dallo Stato del Vaticano. Il motivo? Semplicemente renderlo “mangiabile” dalle popolazioni indigene che, durante la quaresima, avrebbero dovuto consumare, come previsto, solo specie ittiche.

In realtà la carne dei Capibara era particolarmente apprezzata dagli Indios e gli animali venivano sterminati dai colonizzatori europei per evitare danneggiamenti alle coltivazioni: l’abbondanza di bestie uccise ed inutilizzate ha fatto riflettere i Vescovi cattolici che hanno chiesto al Vaticano di poter considerare pesci tali roditori, visto il loro comportamento affine con l’acqua. La risposta affermativa della Santa Sede ha creato uno dei casi più emblematici della storia e, soprattutto, una delle deroghe alla scienza più assurde mai viste.

La cosa si è mai ripetuta? Sembra proprio di sì. Nel 2022 altre notizie giungono infatti dalla California dove la Corte Suprema ha accettato l’appello di alcune associazioni animaliste che hanno proposto un cambio di paradigma, ovvero l’inserimento tra le specie ittiche nientemeno che delle api! Ancora una volta, quindi, la burocrazia vince sulla biologia, in questo caso per permettere alle suddette associazioni di intraprendere campagne di protezione nei confronti degli amici ronzanti in una terra che non prevede alcuna legge a sostegno degli insetti ma molte a salvaguardia dei pesci. La nobile causa farà allora perdonare lo schiaffo alla scienza?

Non vorrei permettermi, ancora una volta, di erigermi a giudice di tale questione. O forse, a modo mio lo faccio ma per dire che, comunque, tra le mille cose che possiamo imputare al genere umano non possiamo negare un profondo senso di creatività. Ed è grazie a questo atteggiamento, alla fine, unito alla curiosità positiva di imparare, che siamo spinti ad esplorare, comprendere e anche sfidare i limiti del conosciuto arrivando a dare un senso al nostro posto nell’Universo.

Anche noi della Lampada delle Scienze siamo quindi a modo nostro degli inguaribili sognatori e facciamo della scienza un costante tentativo di bellezza. Insieme a questa capacità di immaginare che ci rende davvero unici forse, allora, possiamo dire che dopo tutto non siamo poi così piccoli.