Un’idea pazza ma non troppo

di Marco Dian
– Astrofisica e spazio

I buchi neri primordiali, nati nelle primissime fasi di vita dell’universo, potrebbero davvero costituire la materia oscura. L’ipotesi, nata negli anni ’70, è tornata in auge grazie alla formulazione di una nuova teoria sulla formazione dei buchi neri primordiali e ad alcune recenti scoperte.

Illustrazione che rappresenta i multiversi. Crediti: JULIAN BAUM / Getty Images

Non tutta è materia quella che brilla

Nel mondo che noi tutti conosciamo e di cui abbiamo esperienza, le cose che vediamo sono quelle che esistono, poiché qualcosa che non esiste non può essere visto. Nella vastità dell’universo, tuttavia, ci sono cose che esistono anche senza essere viste.

È il caso della materia oscura, uno degli enigmi – forse il più significativo – non ancora risolti dell’astrofisica moderna. Nei primi anni del secolo scorso gli astrofisici si accorsero che c’era qualcosa di strano quando cercarono di confrontare due numeri: quanta materia c’è nell’universo e quanta dovrebbe essercene. [Spoiler: i due numeri non coincidono. Sembra che ci sia molta meno materia di quanta ne serve per far funzionare l’universo nel modo in cui funziona.]

Per esempio, le stelle nelle galassie si muovono più velocemente rispetto a quanto previsto dalle classiche leggi fisiche, che danno per scontato che tutta la materia esistente sia sotto forma di materia visibile. Anche le galassie all’interno degli ammassi di galassie si muovono con velocità molto più alte rispetto alla sola massa visibile. Stando ai calcoli che fece Fritz Zwicky negli anni ‘30 e Vera Rubin negli anni ’60, la forza gravitazionale generata dalla sola materia visibile non basta a tenere legate stelle, galassie e ammassi di galassie. Ci deve essere qualcosa che le trattiene, qualcosa che agisce nell’ombra, nascosto, non visto. Una materia oscura, appunto.

E di questa materia oscura ce n’è davvero tanta. Per capire di cosa stiamo parlando, diamo qualche numero: la materia ordinaria, ovvero quella che forma pianeti, stelle, galassie, nebulose, buchi neri e così via risulta essere circa il 5% del totale. Il 30% del totale è dato dalla materia oscura mentre il restante 65% è qualcosa di ancora più strano ed esotico, l’energia oscura. La parte visibile dell’universo risulta essere una porzione quasi insignificante in termini di massa ed energia complessive.

Tipi strani

Negli ultimi cinquant’anni gli scienziati si sono scatenati nel proporre candidati, più o meno credibili, al ruolo di materia oscura. Le riviste scientifiche sono ormai piene di simpatici acronimi come MACHO (MAssive Compact Halo Object), WIMP (Weakly Interacting Massive Particle), MOND (MOdified Newtonian Dynamics) e molti altri. Tuttavia nessuna di queste alternative sembra essere particolarmente adatta per spiegare esattamente il contenuto della materia oscura nell’universo.

I MACHO, per esempio, consistono in oggetti come pianeti, stelle nane brune, buchi neri, stelle di neutroni, nane bianche e tutti quei corpi che hanno un rapporto massa/luminosità molto elevato. Le verifiche sperimentali negli anni novanta effettivamente dimostrarono l’esistenza di oggetti simili ma anche che la loro massa totale è molto inferiore a quella degli aloni di materia oscura. Serve qualcosa di ancora più massiccio e che agisca su scala cosmologica.

I candidati sui quali si è puntato maggiormente sono i WIMP, ovvero ipotetiche particelle molto massicce che non interagiscono con la materia tradizionale tramite radiazioni elettromagnetiche – quindi non sono visibili a nessuna lunghezza d’onda – ma solo mediante la forza gravitazionale e l’interazione nucleare debole. Gli scienziati hanno cercato a lungo di creare queste particelle negli acceleratori ma, finora, senza successo.

Anche le teorie MOND, che prevedono la modifica delle leggi della gravitazione universale tramite l’inserimento termini aggiuntivi nelle equazioni newtoniane, non sembrano essere compatibili con le osservazioni. Infatti, anche con queste aggiunte, non si riesce a eliminare completamente l’esigenza della materia oscura negli ammassi di galassie. Inoltre sarebbero necessari interventi di correzione alla relatività generale che implicano importanti difficoltà teoriche.

Sembra quindi che la materia oscura sia qualcosa di molto più misterioso e che siamo ancora ben lontani dal capire in cosa consista davvero. Per superare quest’empasse rilassiamoci un secondo, prepariamoci un buon thè e voliamo nell’Inghilterra di inizio anni ’70, più precisamente all’università di Cambridge.

Buchi neri nell’universo neonato

Sono questi gli anni in cui un giovane ricercatore, allora trentaduenne, di nome Stephen Hawking pubblicava, assieme al suo studente di dottorato Bernard J. Carr, alcuni lavori che illustravano nel dettaglio il funzionamento dei buchi neri primordiali. Questi oggetti, già proposti dai fisici russi Yakov Zel’dovich e Igor Novikov, sono ipotetici buchi neri che non si formano tradizionalmente dal collasso gravitazionale di una stella ma dall’estrema densità della materia durante le prime fasi dell’espansione dell’universo.

Hawking e Carr ipotizzarono che nelle primissime frazioni di secondo dopo il big bang, piccole fluttuazioni di densità abbiano prodotto zone di materia in cui le condizioni estreme erano sufficienti da farle collassare in buchi neri. I due fisici stimarono che le masse di questi ipotetici oggetti oscillerebbero da un decimillesimo di grammo a qualche migliaio di masse solari, ma soltanto quelli con una massa intermedia potrebbero essere sopravvissuti fino ai giorni nostri.

Tuttavia, all’epoca in cui Hawking descrisse il funzionamento dei buchi neri primordiali, non si conosceva ancora da dove potessero essersi generate le fluttuazioni di densità necessarie per la loro formazione. Non sapendo descrivere esattamente il modo in cui queste regioni collassavano in buchi neri, nessuno poteva dire con certezza quanto massivi essi potessero essere. Fortunatamente per Hawking e colleghi, nei primi anni ’80 il fisico Alan Guth propose un’idea che non solo spiegava l’origine delle fluttuazioni di densità ma risolveva anche alcuni problemi della teoria del big bang.

L’inflazione cosmologica

L’idea di Guth consisteva in una brevissima ma estrema fase di espansione accelerata dell’universo avvenuta tra 10–36 e 10–32 secondi dopo il big bang. Durante questa fase, detta inflazione cosmologica, il tessuto spaziotemporale fu “stirato” a tal punto da produrre zone d’universo più dense rispetto ad altre. Si ipotizza che è proprio in queste aree a densità più alta che le condizioni furono propizie per la formazione dei buchi neri primordiali.

Illustrazione che rappresenta la storia dell’universo. L’inflazione cosmica è avvenuta immediatamente dopo il big bang. Crediti: NASA.

L’inflazione cosmologica non è il solo meccanismo che i fisici hanno utilizzato per produrre, teoricamente, i buchi neri primordiali. Negli anni, infatti, sono stati proposti numerosi scenari possibili per la loro formazione e tutti si basano sulla supposizione che tali oggetti si siano originati nelle primissime fasi di vita dell’universo: si va da scenari di disomogeneità primordiali a collassi derivanti da fluttuazioni invarianti di scala, dal collasso durante l’epoca dominata dalla materia alla diffusione quantistica.

Insomma, ancora una volta la creatività dei ricercatori sembra non avere fine. Ma, come soleva dire Carl Sagan: “affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie”. Tutte queste teorie restano, appunto, teorie se non c’è alcuna prova concreta, una conferma sperimentale e osservativa che i buchi neri primordiali esistono veramente e come si sono formati.

Tuttavia, tra tutte le idee proposte ve n’è una, recentissima, di cui ancora non ve ne abbiamo parlato. Un’idea tanto pazza da poter sembrare percorribile. Ma, soprattutto, ha un primo riscontro con le osservazioni.

Multiversi e buchi neri primordiali

Un aspetto interessante dell’inflazione cosmologica è che attribuisce l’origine delle galassie e di tutte le altre strutture su grande scala dell’universo a piccolissime fluttuazioni quantistiche avvenute un miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo dopo il big bang. La teoria prevede che tali fluttuazioni rimangano piccole per la gran parte del tempo e diventino apprezzabili soltanto in tempi relativamente recenti (parliamo comunque di alcune centinaia di milioni di anni dopo il big bang). Tuttavia, vi è la possibilità che le perturbazioni quantistiche possano essere state amplificate durante la fase dell’inflazione, fino a raggiungere dimensioni ragguardevoli.

I fisici chiamano queste perturbazioni bolle di vuoto e, a causa delle loro grandi dimensioni, possono essere considerate a tutti gli effetti dei “baby universi”. Semplificando, il quadro della situazione è il seguente: durante la fase dell’inflazione cosmologica alcune fluttuazioni quantistiche si sono amplificate a tal punto che, dal vuoto, si sono create delle grandi bolle (di vuoto) che, a tutti gli effetti, possono essere considerate mini-universi a se stanti. Siamo nello scenario del multiverso primordiale.

Il destino di questi baby-universi dipende soltanto dalle loro dimensioni e può essere determinato a seconda che sia più grande o più piccolo di una scala critica. Se la dimensione del mini-universo è più piccola della scala critica, esso collasserà in seguito agli effetti della pressione del vuoto; la grande energia rilasciata nel piccolo volume causerà la formazione di un buco nero. Se, invece, le dimensioni del mini-universo superano la soglia critica, le sue proprietà diventano ancora più strambe. Dal punto di vista di un osservatore interno al baby-universo, esso continuerà ad espandersi sotto gli effetti dell’inflazione cosmologica. Questa regione è connessa all’esterno mediante un wormhole. Dal punto di vista di un osservatore esterno al baby-universo, come noi per esempio, esso apparirà come un buco nero.

In entrambi i casi, quindi, i mini-universi piccoli e grandi per noi si comportano esattamente come buchi neri che, dietro ai loro orizzonti degli eventi, nascondono la struttura di universi multipli. Dal momento che le dimensioni di questi multiversi sono le più svariate, ne consegue che anche le masse di questi buchi neri primordiali possono variare molto.

Finora tutto ciò sembra essere uscito direttamente dalla penna di uno scrittore di fantascienza. Invece, una parte della comunità scientifica è realmente convinta che i buchi neri primordiali prodotti dalla teoria dei multiversi possano costituire effettivamente la maggior parte della materia oscura. Inoltre, la massa di questi ipotetici buchi neri è compatibile con le osservazioni degli eventi di onde gravitazionali osservati dall’interferometro americano LIGO e quello italiano VIRGO.

Vedere uno di questi buchi neri è relativamente semplice e il meccanismo è il cosiddetto microlesing gravitazionale. Prendiamo in considerazione una galassia come Andromeda (per gli amici M31), distante da noi due milioni e mezzo di anni luce e osserviamola nel dettaglio. Se un buco nero transitasse attraverso il campo inquadrato e passasse davanti a una delle stelle di M31, la gravità del buco nero distorcerebbe il tessuto spazio temporale: in un breve lasso di tempo, la deviazione della luce farebbe apparire la stella più brillante rispetto a prima. La durata dell’aumento di luminosità è una misura indiretta della massa del buco nero.

Un indizio?

Lo scorso dicembre un team di ricercatori del Kavli Institute for the Physics and Mathematics of the Universe ha avanzato l’ipotesi che i buchi neri primordiali derivanti dalla teoria del multiverso potrebbero essere osservati utilizzando uno strumento apposito. Si tratta della Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera digitale installata sul telescopio Subaru da 8,2 metri sulla cima del monte Mauna Kea alle Hawaii.

Il grande vantaggio di questo strumento è la sua altissima risoluzione. HSC è in grado di mappare l’intera galassia di Andromeda ogni pochi minuti e osservare contemporaneamente cento milioni di stelle. L’alto numero di osservazioni simultanee è un chiaro passo in avanti per la ricerca di eventuali buchi neri che transitano davanti alla luce di una stella.

E in effetti sembra che HSC prometta bene: dopo sole sette ore di osservazione di M31, i ricercatori hanno individuato un oggetto che sembra essere il candidato perfetto di un buco nero primordiale. Esso ha una massa comparabile a quella della Luna ed è in linea con il range di masse ammesse per questi oggetti che attualmente è stimato essere tra un cento-miliardesimo e un milionesimo di masse solari.

In realtà, l’osservazione di HSC ha imposto un vincolo ancora più stringente sulle masse dei buchi neri primordiali. Inoltre, se tali oggetti dovessero effettivamente costituire gran parte della materia oscura, ci si aspetterebbero osservazioni più frequenti. Il fatto che in un milione di stelle si sia osservato soltanto un evento di microlensing non fa certo ben sperare.

È anche vero, però, che l’osservazione è stata fatta soltanto dopo poche ore di attività dello strumento e solo per M31. Si rende necessario mappare anche altre zone del cielo e raccogliere altri dati per poter definitivamente stabilire se i buchi neri primordiali generati nello scenario dei multiversi possano effettivamente costituire tutta (o quasi) la materia oscura.

Se il buco nero con massa lunare non può considerarsi una prova, esso è comunque un indizio a favore di questa ipotesi. E agli scienziati un indizio è sufficiente per investigare ancora meglio e ancora più in profondità i meravigliosi segreti del cosmo.

Riferimenti

Carr B., Hawking S. W., Black Holes in the Early Universe, Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, 168;2, 399-415 (1974)
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DOI: 10.1103/PhysRevLett.125.181304

Garriga J, Vilenkin A, Zhang J., Black Holes and the Multiverse, Journal of Cosmology and Astroparticle Physics 1602:064(2016)
DOI:10.1088/1475-7516/2016/02/064

Niikura H. et al., Microlensing contraints on primordial black holes with Subaru/HSC Andromeda Observations, Nature Astronomy 3, 524-534 (2019)
DOI: 10.1038/s41550-019-0723-1

Carr B., Kühnel F., Primordial Black Holes as Dark Matter: Recent Developments, Annual Review of Nuclear and Particle Science 70, 355-394 (2020)
DOI: 10.1146/annurev-nucl-050520-125911