Relazioni che salvano: parola di scienza

di Riccardo Federle
– Editoriale del presidente

Io in una foto di quest’estate, a Cordoba, nel Museo de la Alquimia. Talvolta le relazioni possono essere raffigurate proprio così: elementi diversi che trovano un loro equilibrio di coesistenza, fruttuoso l’uno per l’altro (crediti: Riccardo Federle)

“Si salvi chi può!”. Ebbene sì: è questo ciò che ci sentiremmo dire in una situazione di massima emergenza, quando le circostanze parrebbero non lasciare più alcuna possibilità. Il vocabolario della lingua italiana lo definisce in effetti “un grido di allarme in caso di estremo pericolo, lanciato da chi ha la responsabilità della vita di un gruppo affinché ciascuno provveda come può alla propria salvezza”. Quando perciò non si può più contare sull’aiuto degli altri non resta che rimboccarsi le maniche per cercare di superare, con le sole proprie forze, il momento di criticità.

Eppure, questa non sembra essere una vera soluzione quanto più una conseguenza della disperazione: nonostante i numerosi detti popolari secondo cui “chi fa da sé fa per tre” o “meglio soli che mal accompagnati” è ampiamente dimostrato, infatti, come un insieme di individui abbia sempre maggiori risorse e capacità di elaborare soluzioni rispetto ad un singolo soggetto.


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La scienza è quindi a favore delle relazioni: ma esiste un limite?

I tempi odierni sono decisamente critici rispetto a questo argomento e le cronache attuali hanno dato ragione di come, spesso, le relazioni siano diventante anche la causa della rovina dell’uomo. Questo accade perché è stato decolorato il rosso del sentimento per lasciare posto a quello più cupo del sangue: ne emerge un grido delittuoso fatto di storie di persone, soprattutto donne, invischiate in situazioni sociali compromesse, dalle quali spesso non riescono ad uscire.

Riaffiorano quindi temi delicatissimi estremamente incentrati sull’argomento della relazione ma anche profondamente legati alla sfera sessuale e sentimentale. Tutti aspetti che dovrebbero rientrare tra i concetti più chiari di una società sana ma che, al contrario, sfumano in un grigiume di incertezze e finiscono fin troppo spesso per essere sbandierati con ostentazione in una serie di impropri ricalcoli femministi, risposta malata ad una società altrettanto inguarita.

È tuttavia un argomento sul quale potremmo instaurare un dibattito pressoché infinito e dirimere tale questione sembra difficile quanto camminare con delle scarpette di cristallo: non è infatti possibile riuscire a ragionare su questa faccenda senza suscitare qualche reazione estrema che, mi permetto, viene spesso dettata dalla pancia prima che dall’intelletto.

Ma non è la scienza questa volta che deve fornire risposte quanto invece la riscoperta dei valori sociali sui quali tutti noi dovremmo avere una corresponsabilità di educazione, attuazione e sorveglianza.

Ciò che invece il sapere scientifico ci racconta può essere una storia diversa… ed è quello di cui oggi vi voglio parlare io: l’obiettivo a cui mi riferisco è infatti l’aspettativa di vita.

Uno studio lungo ben 85 anni condotto presso l’Università di Harvard sembra infatti aver dimostrato già qualche anno fa che non il successo personale, non l’attività fisica o la dieta sana sembrano garantire maggior longevità (per quanto chiaramente concorrano allo scopo) quanto invece la qualità delle relazioni.

Tutto è cominciato nel 1938, periodo della Grande Depressione: l’Harvard Study of Adult Development ha deciso di provare a monitorare la salute degli studenti del secondo anno del college (tra le reclute originali c’era anche John F. Kennedy, poi Presidente degli Stati Uniti d’America) ampliando poi la ricerca, negli anni successivi, alla numerosa prole di questi per un totale di 1300 persone.

La vita di tutta la popolazione inserita nello studio ha naturalmente preso le strade più diverse: ma non era quella la cosa importante quanto invece il monitoraggio attento di vittorie e sconfitte, di trionfi e fallimenti, nella carriera come nella vita privata.

Il direttore dello studio Robert Waldinger, psichiatra al Massachussets General Hospital e professore alla Harvard Medical School è quindi giunto, dopo molto tempo, a dichiarazioni che sembrano una vera rivelazione: le nostre relazioni, infatti, e quanto siamo felici in esse hanno una potente influenza sulla salute di ciascuno.

I legami stretti, frutto degli affetti che crescono nel migliore dei modi, proteggono le persone dalle insoddisfazioni della vita, aiutano a ritardare il declino fisico e mentale e sono, a tutti gli effetti, dei predittori migliori di vite lunghe e felici a dispetto di classe sociale, QI, etnia e patrimonio genetico. Nessuno avrebbe mai pensato, perciò, che a 50 anni di età il livello di soddisfazione nelle relazioni di amore e amicizia dei soggetti intervistati sarebbe stato maggiormente predittivo sulle loro modalità di invecchiamento rispetto ai valori del colesterolo.

Matrimoni felici hanno esposto soggetti a provare anche meno dolore fisico durante la vita, relazioni più significative facevano evitare fumo e alcool in eccesso contribuendo in modo importante al mantenimento della salute personale. Il sostegno sociale, inoltre, è stato per la maggior parte di loro la chiave di volta per un minor deterioramento mentale nonostante il passare dell’età.


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“Le buone relazioni non proteggono solo il nostro corpo ma anche il cervello” ribadisce Waldinger. È invece la solitudine che uccide … e lo fa con la stessa potenza di fumo e alcool.

La scienza, perciò, non ha dubbi: la salvezza è un incessante lavoro di relazione. Ma parliamo di relazioni buone e costruttive, di persone capaci di portare serenità, buon umore e ottimismo nella nostra vita. Tutto il resto è un triste ridursi all’isolamento o al giustificare con ingenuità atteggiamenti sbagliati e corrosivi.

Ovviamente si tratta comunque di un cambio di paradigma molto significativo che, come tale, necessita di essere valutato con moderazione, come ogni novità proposta dalla scienza: tutto quanto è attualmente parte dei piani di prevenzione della medicina deve necessariamente essere mantenuto in quanto frutto di anni di studi. Ma l’aspetto relazionale non può più restare estraneo a questo mondo, ricordando come già l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisse, nel 1948, la salute come “uno stato di completo benessere” non solo “fisico” ma anche “mentale, psicologico, emotivo” e, soprattutto “sociale”.

Forse anche per questo motivo, allora, la Lampada delle Scienze sente quel costante desiderio di fare rete. Quello lavorativo o scolastico (o comunque legato alla produttività) se pur sia un contesto ben diverso dal familiare sottende comunque la necessità di ambienti sereni e pieni di ossigeno in cui sentirsi crescere nelle competenze tanto quanto nell’umanità.

Al tempo che passa non c’è dunque una soluzione: ma c’è una cura per passarne tanto in questo mondo … e sembra essere l’amore.