Noli me tangere

di Maria Luisa Vitale
– Biologia

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Ormai l’abbiamo capito, il mondo delle piante non è un ameno praticello fiorito messo lì per deliziare i nostri sensi e i nostri palati. 

Le piante sono tutt’altro che pacifiche e non belligeranti: là fuori è una giungla (pun intended), vince il più forte e vincere significa far proseguire la propria genia in tutti i modi possibili, anche uccidendo gli avversari.

Fra le piante ostili, che sanno come fare del male quando vogliono, un posto d’onore va riservato alla famiglia delle Euphorbiaceae.

Succulente o erbacee, alberi o arbusti, la famiglia comprende generi e specie diversissime tra loro ma fra cui si annoverano piante fra le più velenose e tossiche. È, ad esempio, la famiglia del ricino, ma anche del croton tiglium il cui olio contiene il potente promotore tumorale forbolo, dell’apparentemente innocua Stella di Natale dal latice caustico, e di Hura crepitans L, armata fino ai denti.

Hura crepitans, conosciuta anche come jabillo, è un alto albero tropicale dall’indole combattiva che si ritrova sia in Africa che nel Sud America. Il suo fusto è cosparso di spine che impediscono agli animali di cibarsi della pianta ma anche di tentare la scalata verso i rami dalle ampie foglie.

Tenendo lontani gli aggressori, l’albero riesce a ergersi per circa sessanta metri da cui lascia cadere al suolo i suoi frutti. Anche loro velenosi e dai semi che causano vomito e crampi fino a convulsioni e morte.

Ma non basta non avvicinarsi troppo all’albero per essere al sicuro: semi lanciati come schegge impazzite alla velocità di 70 m/s possono colpire i malcapitati a quaranta metri di distanza. 

Hura crepitans L è infatti fra quelle piante che usa un sistema esplosivo per spargere i propri semi. Il sistema di far esplodere i propri frutti è abbastanza comune, si pensi al cocomero asinino. Il meccanismo sfrutta accumuli di tensione, che sono diversi per le diverse specie, per generare la forza che proietta lontano dalla pianta madre i semi. 

Nel caso del jabillo, i frutti sembrano delle piccole zucche. Si tratta di capsule in cui elementi fogliari modificati formano degli spicchi appiattiti che accolgono i semi.

Una volta che il frutto inizia a seccarsi, i suoi “spicchi” diventano coriacei e accumulano energia potenziale che si sprigiona quando, cadendo al suolo, si formano delle microfratture che portano la struttura a cedere e a causare una esplosione che risuona nella foresta come una schioppettata. È per questo che l’albero viene anche chiamato “pistola delle scimmie”.

I semi piatti, dal diametro di circa due centimetri, vengono proiettati quindi intorno, con un’angolazione e una rotazione che è stato studiato essere la migliore per l’effetto aerodinamico, colpendo tutto ciò che li ostacola.

Comunque sia, una volta che l’albero era lì, tanto valeva usarlo. Chi incautamente ha provato a sfruttare il legno, tagliandolo o bruciandolo, ha subito le conseguenze della dispersione del suo lattice irritante che causa cecità temporanea, eruzioni cutanee e bruciature sulla pelle. Anche i monili ricavati da legno e frutti sono irritanti.

Gli indigeni hanno così imparato presto a starne lontani, ma anche a sfruttare la tossicità. La linfa veniva usata, infatti, per ottenere frecce velenose ma anche per intossicare i pesci.

Poi hanno pensato anche di ricavarne dei rimedi medicinali, usando l’olio dei semi come purgante, l’estratto delle foglie come vermifugo e per i reumatismi, ma anche, paradossalmente, contro gli eczemi e nelle malattie della pelle e la lebbra. In Africa invece è usato nelle affezioni del fegato.

Gli studi di etnobotanica si sono poi trasposti nella ricerca di un fondamento all’uso tradizionale della pianta. Sono state identificate quindi le tossine del latice – uratossina ed esaidrouratossina, lectine che provocano formazione di aggregati di globuli rossi e inibitrici della sintesi proteica – ed è stata indagata la presenza di polifenoli, fino a confermare l’azione epatoprotettiva. 

Proprio i polifenoli sono infatti indicati come i fattori che riducono lo stress ossidativo subìto dalle cellule del fegato esposte a sostanze tossiche, e capaci quindi di proteggere le strutture epatiche, evitare la fibrosi e l’infiammazione, tanto che gli esperimenti sui topi hanno confermato l’uso medicinale di Hura crepitans L.

Una conferma utile: non è detto, infatti, che da questa diavoleria frondosa non si possano ricavare informazioni interessanti per iniziare a progettare nuovi farmaci.